Il convento è ubicato sulla dorsale rocciosa ad un'altitudine superiore rispetto all'abitato di Santomenna. Stando a quanto scriveva Donato Antonio Castellani nella sua Cronista conzana del 1691, il sito un tempo era frequentato dai benedettini di Cassino, solo dopo subentrarono la Mensa Arcivescovile di Conza e i frati cappuccini di Salerno. I frati erano stati inviati a Santomenna dalle autorità locali per ricostruire il vecchio convento e la sua chiesa, che così venne dedicata a San Menna e San Francesco d'Assisi, e a tal fine alcuni signorotti sammennesi donarono alcune terre per garantire un primo sostentamento. L'arcivescovo Marco Antonio Pescara documentava l'inizio dei lavori di costruzione con la sua Vista pastorale del 1580. Due anni dopo i primi frati entravano ufficialmente nel convento, ma solo nel 1583 l'intervento di costruzione poteva dirsi terminato. Stando alle fonti, in origine il plesso non era molto grande, esso poteva tuttavia disporre di uno scantinato, un piano terreno ed un primo piano; la chiesa era accanto. Nel corso del XVII secolo, con la crescita di Santomenna, cresceva anche la comunità di cappuccini e nel 1691 la casa monastica poteva contare circa dieci frati. Nel 1729, con l'elezione a padre provinciale del sammennese Giambattista Di Ruggiero, il complesso veniva ampliato, assumendo così le sembianze con le quali giungeva nel Novecento, e la stessa chiesa era ampliata e dotata di nuove opere. Il convento poteva così contare un primo livello, lo scantinato, che fungeva da cantina e legnaia; un secondo livello, il pian terreno, composto da tredici vani adibiti a refettorio, dispensa e depositi; un terzo livello, il primo piano, con ventisei celle per i frati, una biblioteca, e alcuni spazi comuni; un quarto livello, il secondo piano, con quattro celle ed una cappella; infine un giardino con fonti d'acqua. Dopo la soppressione degli ordini religiosi del 1811, cui Santomenna non fu indenne, il convento veniva chiuso e più tardi venduto a privati, lasciando solo la chiesa all'autorità ecclesiastica. Di esso oggi non rimangono che pochissimi ruderi: rocchi di colonne, frammenti lapidei, resti di murature che lasciano percepire l'estensione della casa religiosa, muri che suggeriscono lo sviluppo planimetrico dell'antica chiesa a navata unica con quattro cappelle sul lato sinistro dedicate a San Vito martire, Sant'Antonio da Padova, Madonna Immacolata e San Felice martire. In quella di San Vito, in quella immediatamente a sinistra dell'altare maggiore, è ancora visibile la tomba dell'arcivescovo Ercole Rangoni (1645-1650), considerato il rifondatore di Santomenna. Nel 1978 fotografie d'epoca ritraggono la struttura conventuale ancora in piedi, seppur abbandonata, ma parte del suo patrimonio storico-artistico probabilmente era già stato trasportato altrove, in loco forse rimanevano in essere gli stucchi della chiesa, di cui si intravedono flebili tracce, e l'altare maggiore. Altre fotografie all'indomani del terremoto del 1980 documentano proprio l'altare maggiore, e consentono di appurare che il manufatto era stilisticamente in linea con la produzione dei marmorari napoletani dei primi decenni del Settecento: elementi in marmo bianco scolpito e commesso con pietre e marmi policromi, grosse peducci reggimensa, paliotto architettonico con lo stemma francescano nel mezzo, tabernacolo monumentale con pannelli a rilievo ai lati. Di tutto ciò, ora, non si conserva più nulla. Dall'Inventario napoleonico delle opere d'arte del 1811 apprendiamo che sull'altare maggiore vi era una tela della Beata Vergine di Gioacchino de Franchis (o De Franchinis), pittore di Sala Consilina documentato al 1741, di cui mancano notizie, attivo anche per i cappuccini di Montesano sulla Marcellana e operante a Sicignano degli Alburni. L'elenco del 1811 riporta pure la statua in legno di San Vito nella prima cappella, da identificare con la statua seicentesca in deposito proprio nel Museo, il dipinto dell'Immacolata Concezione nella terza cappella, da riconoscersi nel dipinto del 1586 esposto al Museo, la statua di San Felice da Cantalice nella quarta cappella, da identificare con quella lignea settecentesca in deposito a Palazzo De Ruggieri, la statua di San Biagio nella medesima cappella, da riconoscere in quella cinquecentesca esposta nella chiesa dell'Immacolata. L'elenco napoleonico riporta altresì una statua lignea di San Fedele nella nicchia di un altare collocato nella navata principale che potrebbe coincidere con la statua posta in Museo. L'Inventario rubrica molti dipinti di piccola dimensione, in chiesa come in altri ambienti, ad esempio cita i ritratti di frati defunti in un corridoio e due dipinti di Carmine Carbutti nel refettorio, ovvero l'Ultima cena e le Nozze di Cana.

Il convento è ubicato sulla dorsale rocciosa ad un'altitudine superiore rispetto all'abitato di Santomenna. Stando a quanto scriveva Donato Antonio Castellani nella sua Cronista conzana del 1691, il sito un tempo era frequentato dai benedettini di Cassino, solo dopo subentrarono la Mensa Arcivescovile di Conza e i frati cappuccini di Salerno. I frati erano stati inviati a Santomenna dalle autorità locali per ricostruire il vecchio convento e la sua chiesa, che così venne dedicata a San Menna e San Francesco d'Assisi, e a tal fine alcuni signorotti sammennesi donarono alcune terre per garantire un primo sostentamento. L'arcivescovo Marco Antonio Pescara documentava l'inizio dei lavori di costruzione con la sua Vista pastorale del 1580. Due anni dopo i primi frati entravano ufficialmente nel convento, ma solo nel 1583 l'intervento di costruzione poteva dirsi terminato. Stando alle fonti, in origine il plesso non era molto grande, esso poteva tuttavia disporre di uno scantinato, un piano terreno ed un primo piano; la chiesa era accanto. Nel corso del XVII secolo, con la crescita di Santomenna, cresceva anche la comunità di cappuccini e nel 1691 la casa monastica poteva contare circa dieci frati. Nel 1729, con l'elezione a padre provinciale del sammennese Giambattista Di Ruggiero, il complesso veniva ampliato, assumendo così le sembianze con le quali giungeva nel Novecento, e la stessa chiesa era ampliata e dotata di nuove opere. Il convento poteva così contare un primo livello, lo scantinato, che fungeva da cantina e legnaia; un secondo livello, il pian terreno, composto da tredici vani adibiti a refettorio, dispensa e depositi; un terzo livello, il primo piano, con ventisei celle per i frati, una biblioteca, e alcuni spazi comuni; un quarto livello, il secondo piano, con quattro celle ed una cappella; infine un giardino con fonti d'acqua. Dopo la soppressione degli ordini religiosi del 1811, cui Santomenna non fu indenne, il convento veniva chiuso e più tardi venduto a privati, lasciando solo la chiesa all'autorità ecclesiastica. Di esso oggi non rimangono che pochissimi ruderi: rocchi di colonne, frammenti lapidei, resti di murature che lasciano percepire l'estensione della casa religiosa, muri che suggeriscono lo sviluppo planimetrico dell'antica chiesa a navata unica con quattro cappelle sul lato sinistro dedicate a San Vito martire, Sant'Antonio da Padova, Madonna Immacolata e San Felice martire. In quella di San Vito, in quella immediatamente a sinistra dell'altare maggiore, è ancora visibile la tomba dell'arcivescovo Ercole Rangoni (1645-1650), considerato il rifondatore di Santomenna. Nel 1978 fotografie d'epoca ritraggono la struttura conventuale ancora in piedi, seppur abbandonata, ma parte del suo patrimonio storico-artistico probabilmente era già stato trasportato altrove, in loco forse rimanevano in essere gli stucchi della chiesa, di cui si intravedono flebili tracce, e l'altare maggiore. Altre fotografie all'indomani del terremoto del 1980 documentano proprio l'altare maggiore, e consentono di appurare che il manufatto era stilisticamente in linea con la produzione dei marmorari napoletani dei primi decenni del Settecento: elementi in marmo bianco scolpito e commesso con pietre e marmi policromi, grosse peducci reggimensa, paliotto architettonico con lo stemma francescano nel mezzo, tabernacolo monumentale con pannelli a rilievo ai lati. Di tutto ciò, ora, non si conserva più nulla. Dall'Inventario napoleonico delle opere d'arte del 1811 apprendiamo che sull'altare maggiore vi era una tela della Beata Vergine di Gioacchino de Franchis (o De Franchinis), pittore di Sala Consilina documentato al 1741, di cui mancano notizie, attivo anche per i cappuccini di Montesano sulla Marcellana e operante a Sicignano degli Alburni. L'elenco del 1811 riporta pure la statua in legno di San Vito nella prima cappella, da identificare con la statua seicentesca in deposito proprio nel Museo, il dipinto dell'Immacolata Concezione nella terza cappella, da riconoscersi nel dipinto del 1586 esposto al Museo, la statua di San Felice da Cantalice nella quarta cappella, da identificare con quella lignea settecentesca in deposito a Palazzo De Ruggieri, la statua di San Biagio nella medesima cappella, da riconoscere in quella cinquecentesca esposta nella chiesa dell'Immacolata. L'elenco napoleonico riporta altresì una statua lignea di San Fedele nella nicchia di un altare collocato nella navata principale che potrebbe coincidere con la statua posta in Museo. L'Inventario rubrica molti dipinti di piccola dimensione, in chiesa come in altri ambienti, ad esempio cita i ritratti di frati defunti in un corridoio e due dipinti di Carmine Carbutti nel refettorio, ovvero l'Ultima cena e le Nozze di Cana.

Convento dei Cappuccini Santomenna

  • dove si trova
  • Santomenna (SA)
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